10 MAGGIO 2019
Scannasurice - Teatro Comunale Giuseppe Verdi - Pordenone
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"Per l’armonia del testo, la cura della regia,
per Imma Villa che, evocando un mondo arcaico,
affida al pubblico emozioni che restano a lungo negli occhi e nel cuore"
Natalia Di Iorio, Consulente artistica Prosa 

Questo venerdì ci occuperemo dell'allestimento al Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone di un intricato reticolato dei Quartieri Spagnoli, sconvolti dal terribile terremoto che colpì Napoli nel 1980, questa l'ambientazione di Scannasurice. Le viuzze labirintiche, piene di topi, pietre e rifiuti, fatte di impervie salite da percorrere anche sotto la pioggia, mille piedi che scappavano alla rinfusa, ché il tentativo di salire non era tanto nel trovare la bellezza e l’eleganza del Vomero, quanto un disperato e atavico bisogno di salvarsi, nelle mani di Enzo Moscato si tradussero in parole tirate, sonore, oscure, feroci, vivide. «Ecco, io con Sсannasùriсe vedevo е percepivo le ferite, le faglie, le fratture dei nostri animi con lo stato precedente della vita e la cultura a Napoli» sostiene l’autore. A restituirle in scena è un femminiello, figura che in seguito diventerà tipica del suo teatro, che dentro la sua «stamberga» aspetta che sia l’ora del suo bisinìsse e che ora riveste la maestria di un’attrice come Imma Villa, guidata dalla regia millesimale di Carlo Cerciello dentro l’imponente e claustrofobica scena di Roberto Crea.
Mentre il sipario si alza, viene svelata questa costruzione a tre piani, abbiamo l’idea di un luogo più grande, scheletro edilizio di un palazzo forse in macerie; si diffonde la voce e alzate le luci, notiamo il corpo piegato, costretto a un incessante movimento, a scivolare su e giù da cubicoli, strisciare, arrampicarsi, accucciarsi. Il nostro femminiello parla ai suoi topi con affetto e disprezzo, a noi si rivolge, ai napoletani schiacciati da un’emergenza più grande, è suricillo egli stesso, topo che tenta, come i suoi compagni ai «piani bassi», di risalire al senso della sua esistenza.
Un unico respiro per questo assolo, all’interno del quale il ritmo dei cambi tonali, dei frammenti di storie raccontate si riversa sul collo, sulle spalle dell’attrice. Volto pittato, retina sulla testa glabra, canottiera e mutandoni da uomo, poi pelliccia rossa, collane, parrucca morbida castana, sandali col tacco. In mezzo, una figura da icona mariana (scelta registica più che indicazione testuale), con tanto di lucette perimetrali, che si lancia in una profonda e lancinante invettiva, benedizione al curaro nella pubblica cisterna, ambigua nel suo atto, che sia di morte o di salvezza.
In ciascun personaggio, ma più in generale in ogni aspetto che attiene tanto al testo di Moscato quanto alla messinscena di Cerciello, il contrappunto e il paradosso sono due dispositivi fondamentali. Anzi, si vive proprio nel mezzo, nei personaggi dei bassifondi che però conversano in latino, nell’essere maschera e persona contemporaneamente, nel ribaltare la verità di ogni gesto, di ogni storia nella quale la promessa di vita sembra poi morte e il fantasma diventa capace di salvare. È il «miracolo quotidiano» che senza giudizio ci accompagna in questa Napoli dalla sconvolta esistenza, dove chi scanna sceglierà di essere scannato.
Il napoletano barocco di Moscato raccoglie l’eredità di Eduardo ma fa chiaramente i conti col proprio tempo – «parlare è un modo come un altro per passà a nuttata» sentiamo – e anzi si pone, come sostiene egli stesso «in un polemico rifiuto a non volersi allineare», è anch’esso intricato dedalo, che però si libra in una lingua ricchissima e sfaccettata, piena di suoni che riempiono le parole, di stasi improvvise, perfino di parentesi esplicative verso termini forse troppo distanti da un non partenopeo. E Imma Villa, complice il tappeto sonoro di Hubert Westkemper e le melodie di Paolo Coletta, è attrice eccezionale, precisa nell’orchestrazione di corpo e voce, attenta, mai grottesca, mai a strabordare, mai si concede l’ammiccamento, il tono compiaciuto, l’esagerazione.